Un finale deludente

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XY di Sandro Veronesi edito da Fandango è un bel romanzo che, però, delude nel finale. Non perché il finale sia aperto, o perché esso non rispecchi le aspettative, ma, molto semplicemente e banalmente, perché quello scritto dall'autore non è un finale (o, almeno, il lettore che sta scrivendo queste righe non lo ha percepito come tale): Veronesi ha semplicemente smesso di portare avanti la storia, interrompendola brutalmente.
Eppure, tutto il libro è scritto quasi in stato di grazia e non si può non ritenere che Veronesi sia uno degli scrittori italiani viventi più importanti.
Che il romanzo non potesse terminare con una spiegazione razionale, il lettore lo capisce appena legge il modo in cui le dieci vittime ritrovate nel bosco sono morte. Ognuna delle vittime, infatti, muore in un modo totalmente differente dalle altre (seppur contemporaneamente alle altre) e ognuna di esse in un modo non possibile in un bosco (compresa una di loro che muore in seguito all'attacco di un uno squalo, peraltro di una specie estinta).

Il libro, infatti, più che un giallo (in senso classico) è un racconto di ciò che accade all'uomo contemporaneo di fronte all'irrazionale, al soprannaturale, al Mistero. Ovvero di come l'uomo moderno tenti di negare il Mistero e come tenti (a volte miseramente) di ricondurre tutto alle consolanti certezze della Scienza.
Ma nella storia raccontata da Veronesi la Scienza viene costantemente umiliata, non perché, per usare le parole di uno dei protagonisti, essa “fallisca, non è che non riesca a trovare una risposta alle domande: la trova sempre, ma è sempre così scientificamente, razionalmente e logicamente incongrua da risultare umiliante”.
Ecco, Veronesi pone il suo lettore di fronte al fatto che esiste anche ciò che la Scienza non può spiegare. Mette di fronte al lettore l'evidenza del fatto che l'Inconcepibile può essere realtà; mette il lettore di fronte al fatto che, come recita l'ultima di copertina, “Se esistono le parole per dirlo, è possibile”.
E il lettore crede, durante la narrazione (ed è il miracolo personale di Veronesi, la sua sapienza di scrittore) che l'Inconcepibile si sia manifestato in un bosco di uno sperduto villaggio di montagna e resta affascinato dalle reazioni dei protagonisti di fronte ad esso, dai loro tentativi di dare un senso a quanto accaduto.
Ciò che il lettore (almeno quello che sta scrivendo queste righe) non crede è il finale. Il fatto che i due protagonisti della vicenda, i due che fino a quel momento l'hanno narrata (uno al passato, già consapevole di quanto fosse successo, l'altra al presente, ignara di quanto stia accadendo) smettano semplicemente di parlarne. Rifiutino di essere quello che fino allora sono stati: ovvero coloro che hanno reso possibile l'Inconcepibile semplicemente perché hanno trovato le parole per raccontarlo (“Se esistono le parole per dirlo, è possibile”).
Entrambi i narratori, nel finale, rifiutano la parola: lui, il prete, non confessa la propria colpa dalla quale era già stato assolto, ma non raccontandola è come negasse valore alla Parola stessa, alla sua potenza salvifica; mentre l'altra (la psichiatra) trova superfluo insistere nel raccontare l'indicibile e ciò facendo nega se stessa, il suo essere una psichiatra e psicologa, ossia una persona che l'indicibile dovrebbe indagare e sviscerare per poter far guarire.
In altre parole, è difficile pensare e credere in un finale nel quale due narratori decidano di smettere di credere nel valore della parola, nel suo potere salvifico e/o terapeutico.
Più che un finale, quello scritto da Veronesi è una negazione.

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