L'Arialda



È un testo duro, senza speranza, L'Arialda di Giovanni Testori (Bompiani). Un testo nel quale un ruolo importante lo gioca il linguaggio: spietato, crudo.
La pièce racconta la storia tragica di un gruppo di popolani della periferia milanese. Essi rincorrono il mito del denaro, tentando di sbarcare il lunario. L'unico momento di svago e serenità che sembra possano permettersi è quello serale dell'amoreggiamento (e non è un caso che gran parte delle scene si svolge a ridosso di un pratone nel quale i protagonisti vanno per appartarsi). 

Ma, per alcune delle popolane, anche tale momento di serenità potrebbe rappresentare la salvezza dalla miseria e, dunque, esso va messo a profitto.
In particolare, il sesso potrebbe servire per cambiare vita sia alla vedova Gaetana («la terrona»), e sia alla zitella visionaria Arialda, entrambe "innamorate" del "ricco" ortolano Amilcare. 
Entrambe tentano di farsi sposare da lui, facendosi la guerra tra loro, fino alla estreme conseguenze. 

Ma il sesso non è un mezzo di riscatto dalla povertà solo per le donne: Eros, il bel fratello di Arialda, si vende ai ricchi uomini del centro. Fa i soldi e non si vergogna né di essere un omosessuale, né un prostituto. Un atteggiamento inusitato e anche un po' spavaldo nell'Italia del 1960, anno in cui la pièce vide la luce. 
Ma, nonostante gli altri personaggi pensino che Eros sia un «disgraziato», egli anela a una vita d'amore assieme al giovanissimo Lino che ama d'un amore puro e, a tratti, paterno. 
Il Destino, però, pare accanirsi contro la povera gente... 

Ad ogni buon conto, se, come detto, molti dei personaggi della pièce hanno un atteggiamento di condanna morale nei confronti di Eros (ma, più che per la sua omosessualità, per la commercializzazione del corpo), altri lo comprendono, lo amano e lo giustificano. 
A tale proposito vale la pena riportare quanto Arialda dice a sua madre a proposito dell'amore che Eros nutre nei confronti di Lino: «Del resto, posso dargli torto? Ma che se le prenda, le sue libertà! E che l'ascolti fin che può, il cancro dell'amore, come ai tuoi tempi, tu, hai ascoltato il tuo!»; frase che equivale non solo a una accettazione dell'omosessualità, ma a una vera e propria equiparazione dell'amore omosessuale con quello eterosessuale. 

Un testo scandaloso e sgradevole quello scritto da Testori nel 1960 e che non mancò di scatenare le ire dei benpensanti e della censura. 
Portato in scena da Luchino Visconti, infatti, lo spettacolo fu sequestrato da un magistrato milanese nel 1961. 
L'ordinanza di sequestro parlava di un lavoro che «si qualifica, soltanto, per il suo sfondo ossessivo e immorale (sfondo nel quale l'oscenità si sviluppa con linguaggio inusitato, da autentica suburra), con una successione di situazioni ambientali e personali torbide ed erotiche nel corso delle quali nessun genere e nessun valore si salva [...]». 
Si potrebbe scherzosamente affermare che il magistrato aveva visto bene, ma non aveva compreso che ciò che lui condannava era invece da lodare, in quanto parte integrante del lavoro artistico di Giovanni Testori. 
Un libro da leggere.

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