Il campione e il suo servo
«Allora, io gli ho risposto: "E va bene. Eccola. Farò il servo un'altra volta"».
Così inizia Il dio di Roserio primo romanzo (la pubblicazione da Einaudi risale al 1954 su indicazione di Italo Calvino ed Elio Vittorini) di Giovanni Testori.
Un incipit insolito che, d'improvviso, senza preamboli, catapulta il lettore nella vicenda.
E, a essere insolito, poco convenzionale (non solo per i canoni letterari dell'epoca, ma anche per i nostri) è tutta la struttura narrativa del romanzo che cambia di capitolo in capitolo la voce narrante, l'io al centro del monologo interiore (un monologo spesso nel dialetto dei protagonisti, quello della Brianza).
Nel primo capitolo l'io narrante è quello di Sergio Consonni, gregario (il servo della frase iniziale del romanzo) della giovane promessa del ciclismo Dante Pessina (il dio di Roserio del titolo); nel secondo diventa quello del Todeschi, il presidente-padre della "Vigor", la squadra di dilettanti per la quale gareggiano il dio di Roserio e il suo gregario; nel terzo capitolo la voce è quella di Dante Pessina; nel quarto si alterna tra quella del Signor Gino, proprietario della pompa di benzina per la quale Dante lavora e quella di Dante stesso e nell'ultimo capitolo i punti di vista mutano in continuazione tra i presenti ad una gara ciclistica.
Dunque, un alternarsi di visuali abbastanza insolito per un romanzo breve com'è quello di Testori che racconta una vicenda per nulla edificante: l'eliminazione (che resta impunita) del gregario da parte del campione, il quale vede nella voglia di vincere del servo una minaccia al suo ruolo di capo.
Un rapporto, quello tra servo e campione, che Testori tinge di sensualità, anche se non troppo apertamente, sia con il fermare ripetutamente l'attenzione descrittiva sui corpi dei due ciclisti, sia usando una terminologia allusiva, pur parlando d'altro, come nel brano seguente (che non si riferisce a una scena di coito) tratto dal primo capitolo:
Il respiro del Pessina adesso mi cadeva sulla nuca profondo, come se venisse fuori da una caverna: mi sbatteva sulle spalle, dove la macchia di sudore, allargandosi sulla maglia, penetrava nella carne, si sdraiava dentro le ossa, finché è diventato una sola cosa col respiro chi mi usciva dalla gola, su, giù, su, giù, su, giù, intanto che il sole ci prendeva di traverso, calando da sopra i tetti, senza carità, e le ruote sibilavano sulle mattonelle.
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