Precipitare nella brutalità


Il Signore delle Mosche di William Golding è un vero capolavoro che, di pagina in pagina, si trasforma in una serie di pugni metaforici ben assestati nello stomaco del lettore.


Un romanzo che si legge con il fiato sospeso e che, per il realismo con il quale è scritto, potrebbe quasi sembrare un documentario che dimostra una delle tesi dello scrittore britannico, Premio Nobel per la Letteratura 1983: «L’uomo produce il male come l’ape produce il miele».


La trama è presto detta: un aereo, con a bordo un gruppo di ragazzini inglesi, precipita su un’isola disabitata in pieno oceano Pacifico.

Alcuni passeggeri si salvano.

Tra loro ci sono teenager e bambini.

Nel gruppo, per un motivo o per l’altro, spiccano: i due leader Ralph e Jack; il riflessivo Piggy; i gemelli Sam ed Eric; lo strambo Simon e pochi altri.


All’inizio il gruppo sembra compatto e accetta di seguire le regole, prese collegialmente, che dovrebbero favorirne il salvataggio.

A guidare l’assemblea e i lavori quotidiani viene eletto Ralph che nomina Jack capo di un sottogruppo che deve dedicarsi alla caccia.


Man mano che i giorni passano, però, l’armonia tra i componenti l’assemblea viene via via scemando e la rivalità tra Ralph e Jack si fa sempre più accesa.


Fino a quando il gruppo si spacca in due e ciò che fino allora si è riusciti a evitare, esplode fragorosamente: si perdono i tabù imposti dalla civilizzazione e si precipita nella brutalità.


Un romanzo - si è detto - che potrebbe sembrare un documentario o, meglio, il report di uno di quegli esperimenti sociologici che, invariabilmente, finiscono male.


Il pessimismo dell’autore è palpabile: l’uomo è solo superficialmente un essere civilizzato, ma basta grattare un po’ la superficie perché il selvaggio brutale che è in lui emerga prepotentemente.

La ragione dell’uomo civilizzato nulla può contro gli istinti primordiali e la sete di sangue del bruto che vive in lui.


Un romanzo di cui si consiglia vivamente la lettura.


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