Holmes e Watson coppia di fatto
Sherlock Holmes di Guy Ritchie è un bel film, nel quale le indagini “mentali” tipiche del personaggio creato da sir Arthur Conan Doyle si uniscono all’azione da Mission Impossible. Holmes, infatti, smette i panni del riflessivo (e pacato) investigatore (pur mantenendone l’arguzia e la perspicacia), per indossare quelli del dinamico agente dei servizi segreti impersonato da Tom Cruise (si veda la scena in cui si tuffa nel Tamigi direttamente da una finestra del Parlamento).
Similmente anche l’amico Watson si evolve e perde in stoltezza per guadagnare in classe e combattività.
L’indagine in cui il regista immerge i due personaggi ha tutte le qualità per accattivare il pubblico, in quanto protagonista ne è l’occulto e chi crede di dominarlo. Holmes, il razionale Holmes, viene, in tal modo, costretto a fare i conti con il mistero e l’irrazionale.
Ma, dato il carattere del film, che è, appunto, un giallo, si evita di addentrarsi nella trama, per puntare l’attenzione sui personaggi così come sono stati pensati dal regista e impersonati dai due interpreti: i bravi Robert Downey Jr. (nel ruolo del titolo) e Jude Law (in quello del sodale).
I loro Holmes e Watson sono due machi dinamici, pronti alla lotta non solo contro i criminali, ma anche nel ring alla Fight Club. Eppure qualcosa nella loro relazione va oltre la semplice convivenza amicale sotto lo stesso tetto cui il pubblico dei lettori e degli spettatori è abituato. Nel film di Ritchie i due amici litigano e lo fanno perché, con tutta evidenza, Holmes è geloso. Geloso del fatto che una donna sta per legare a sé indissolubilmente il suo Watson. L’amico di sempre con cui si scambia gli abiti, che lo sopporta nonostante sia disordinato e (a volte) non del tutto pulito, con il quale cresce il cane di casa (“il nostro cane” come lo definiscono). Un amico con il quale fa coppia fissa. Una relazione che, così come è tratteggiata nel film, non ci si stupirebbe se fosse apertamente e scopertamente definita omoaffettiva. Un’ipotesi che non disturba chi guarda, ma che, anzi, rende in qualche modo più umani e moderni i due protagonisti del film.
E, a proposito di modernità, si dirà solo che Ritchie e gli sceneggiatori del film hanno preso paro paro le paure tipiche dell’era moderna e le hanno “tradotte” nell’Ottocento inglese in cui il film è, ovviamente, ambientato. Paure alimentate dalla tecnologia cui – anche scenograficamente (una Londra “tecno-barocca”) – continuamente si rimanda.
Un film divertente, ben fatto e ben recitato, non privo di giusta ironia.
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