Oscuramente forte è la vita


“Oscuramente forte è la vita” commentava Salvatore Quasimodo in Al padre. Un “verso immortale” (per usare le parole che pronuncerebbe Winnie) che, data la “sostanza” di cui è intessuta la pièce Giorni felici di Samuel Beckett, si è scelto di usare come titolo di questo scritto.

Un testo, quello di Beckett, che mette in luce l’oscura forza vitale di Winnie (e, con lei, di tutto il genere umano): una donna che – nonostante la Natura, la Vita, la costringa a stare in un buco infernale – ha ancora la voglia di andare avanti, di guardare al futuro (tanto che si auto-incita a volgere la mente all’avvenire).
Winnie, infatti, è, a discapito di tutto, ferocemente attaccata alla vita, di cui, anche potendo (è, infatti, in possesso di una rivoltella), non si priva, ma, anzi, alimenta.

Sì, Winnie, alimenta la vita quotidiana dandole tutto ciò di cui essa abbisogna: la “ritualità”.
Il rito dei gesti e delle parole. 
Gesti ripetuti sempre uguali e fino a quando questo è possibile. 
Parole ripetute sempre uguali, fino a quando questo sarà possibile (fino a quando Winnie sarà visibile).

Non dice e non fa nulla di “straordinario” (nel senso pieno del termine), ma, in effetti, è “straordinario” tutto quello che fa: interrata prima fino alla vita, poi fino al collo, Winnie parla e agisce come nulla fosse.

Parla e agisce innanzitutto per se stessa, per auto-convincersi che tutto va come dovrebbe, che nulla ha di che lamentarsi, perché non sente alcun dolore o quasi.

In minima parte, forse, parla e agisce anche per il marito che lei vorrebbe la stesse ad ascoltare. 
Ma il suo, ad ogni modo, è e resta un monologo.

Sicuramente parla e agisce perché è visibile (come detto in precedenza). 
Visibile da qualcuno che lei “percepisce”: lo dichiara apertamente, Winnie, di sentirsi osservata, guardata da qualcuno.

Quel “qualcuno” sono gli spettatori.
Winnie, quindi, parla e agisce, “ritualizza”, anche (e, forse, soprattutto), per gli spettatori che, con lei, condividono sia il rito del teatro, sia, soprattutto, la condizione di esseri umani prigionieri della vita; esseri umani costretti in un buco (più o meno metaforico), ma che, comunque, “se la raccontano” e guardano avanti, in quanto sono oscuramente attaccati alla vita.

Esseri umani che, quando appartengono alla classe borghese come Winnie (e come gli spettatori che la guardano), non solo sono attaccati alla vita, ma hanno anche “l’obbligo morale” (“di classe”) di essere ottimisti; di dichiararsi tali. 
E, quindi, di guardare alla vita come a qualcosa di “meraviglioso” e di stabilire che, quelli che si stanno vivendo, sono giorni felici.
 
Ieri sera al Teatro Donizetti di Bergamo si è ripetuto il rito del vedere e Winnie ha potuto parlare di nuovo al suo pubblico. 
Lo ha fatto per mezzo della brava Adriana Asti, diretta da Robert Wilson.

La Asti (e con lei Wilson) ha caratterizzato i due momenti diversi dello spettacolo in modo molto netto: nel primo tempo, quando ancora la sua condizione lo consente, ha dato a Winnie gesti rallentati (ma plateali) e ha messo nel suo dire lunghe (anch’esse plateali) pause.


Nel secondo tempo, invece, quando il gesto non è più possibile, ha velocizzato l’eloquio (di nuovo platealmente).

I suoi gesti e il suo dire hanno riempito la scena, hanno modellato il mondo. 
La luce alle spalle dell’attrice, infatti, mutava colore e intensità a seconda di quanto Winnie diceva o faceva nel suo buco. 
Sia chiaro: non che la luce mutasse seguendo un impossibile (nel monologo beckettiano) filo logico. Mutava in quanto Winnie faceva o diceva.

Segno registico, l’illuminazione, che sottolinea come il mondo di Winnie sia un mondo “artificiale”, in quanto costruito ad arte per consentire alla protagonista di portare a conclusione le sue giornate felici.
Uno spettacolo (e un testo) sicuramente non per tutti, ma di cui si consiglia la visione.

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