Capote intervista Brando


Nel 1956 Truman Capote intervistò Marlon Brando che si trovava in Giappone per girare gli esterni di Sayonara
L’intervista uscì nel 1957 sul «The New Yorker» con il titolo The Duke in His Domain (Il Duca nel suo dominio, Mondadori).
Capote immerge Brando in uno scenario “di cartone”, bidimensionale: un Giappone molto di maniera, fatto di camerierine in chimono e servitori sempre sorridenti, un Paese dove «la ridarella […] nasce senza motivi apparenti». 
Una bidimensionalità anche verbale, dove la “tridimensionalità” del suono “rl” di Marlon viene livellata in una dolce bidimensionalità di una doppia “rr”: i giapponesi, infatti, chiamano il divo americano Marron. 
Il Giappone post-atomico non esiste nell’esperienza di Capote-Brando: non c’è sofferenza, tragedia, malattia, ma solo sorrisi e accoglienza per gli americani in visita (che, pare non essere mai stati dei nemici di guerra…).

Ovviamente, c’è una spiegazione del perché un grande come Capote usi tale espediente: egli crea una scenografia bidimensionale e quanto più possibile accogliente e neutra, per mettere in rilievo – un rilevo molto più che tridimensionale - l’oggetto Marlon Brando. 
Un Marlon Brando diverso da come i lettori americani sono abituati a vedere: meno “esteriore” e più “interiore”. 
È come se la prepotente fisicità di Marlon Brando acquisisse una “quarta” dimensione data dalla sua vita interiore che Truman Capote riesce a far emergere dall’intervista, anche grazie alla neutralità di campo nel quale immerge l’intervistato.

Quello di Capote è un Brando che ha dei problemi seri, dei nodi irrisolti che svela all’intervistatore in modo forse non intenzionale: la loro sembra essere una conversazione tra amici intimi, piuttosto che un’intervista ufficiale. 
E l’intimità della situazione viene sottolineata da vari espedienti narrativi che Capote lascia cadere come nulla fosse, non ultimo il fatto i due si trovino nella stanza d’albergo del divo e stiano cenando. 
Una camera disordinata, dove «Tutto ciò che <Brando> possedeva […] era allo scoperto». 
Un mettere “in mostra” che, più che gli oggetti personali, riguarda soprattutto l’intimità del divo: Brando con Capote si stava “scoprendo”. 
E non è un caso che in primo piano emergano i libri di lettura di Brando: «testi di preghiere buddhiste, meditazioni zen, respirazione yoga, misticismo indù». 
Insomma, Capote sta mettendo i propri lettori sull’avviso: è come se stesse dicendo di stare all’erta, perché quello di cui si parlerà è un Marlon Brando inedito.
Ecco, allora, che Brando pare abbia perso i caratteri adolescenziali e la «raffinatezza e […] gentilezza quasi angeliche» del volto, ancora ben visibili al tempo del suo esordio teatrale in Un tram che si chiama desiderio e abbia, ora, un corpo «ispessito» e la fronte alta data dal diradamento dei capelli. 
Un Brando che è passato attraverso l’esperienza delle sedute psicoanalitiche e parla di sé come di una persona «vulnerabile» perché iper-sensibile e – nonostante l’analisi - «piuttosto confuso, un bel po’ incasinato». 
Un uomo che dichiara di potersi entusiasmare per un qualcosa, ma non più per sette minuti esatti e che può mutare le proprie opinioni molto rapidamente.
Ma soprattutto, Brando afferma di essere un uomo incapace di amare chicchessia e che in ciò stia il suo problema principale, in quanto l’unica ragione per vivere, per lui, è proprio l’amore. 
Un uomo, Brando, che, forse, supplisce alla carenza affettiva circondandosi di amici che tratta come farebbe «un duca nel suo dominio»: i suoi “amici” sono persone che hanno bisogno di lui e di cui lui non si fida mai completamente.

La carenza affettiva di Brando ha radici profonde e antiche: nasce dall’avere avuto un padre indifferente e distaccato e una madre alcolizzata alla quale lui, per un certo periodo, era rimasto attaccato in modo viscerale, per poi allontanarsene, lasciandola nel suo delirio di vecchia ubriacona.

Insomma, il Brando di Capote non è un divo di celluloide, ma è un uomo che si mostra in tutta la sua complessità. 
Il divo tornerà solo al termine dell’intervista, quando Capote, dirigendosi verso il suo alloggio sotto una pioggia battente, ritrova il Marlon Brando che tutti conoscono: quello bidimensionale e fumettistico dei cartelloni pubblicitari.

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